Female slaves revenge: quando le vittime diventano carnefici

0
1

Female slaves revenge 1997: ovvero morire calpestati sotto tacchi donne. Potrebbe condensarsi in questa frase il film di Ted V. Michels Female Revenge Slave. Le vittime che diventano carnefici. Questo il tema che si potrebbe isolare, l’unico, in una pellicola, che mostra un corteo di donne attorno a un uomo legato, steso a terra, su cui premono i piedi col tacco. Il calpestamento con i tacchi, in effetti è la chiave di volta del film. La scarpa col tacco da oggetto del desiderio agognato da queste donne che lavoravano schiave nelle piantagioni, diventa strumento di rivalsa. La scarpa col tacco, simbolo di questo riscatto sociale che in realtà non è altro che una vendetta barbara e feroce, diviene lo strumento con cui le donne decidono di condannare a morte l’uomo. Il proprietario che le angariava vedrà volgersi a suo sfavore la situazione, e da padrone ne subirà il rovescio divenendone schiavo, verrà quindi pestato sotto le scarpe di queste donne fino a morirne.

Trama in breve

Il film del regista Ted  V. Michels parla della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo. Se la pellicola, nelle intenzioni almeno, vorrebbe esplorare l’attualità col focus delle tensioni razziali nell’Africa postcoloniale, si rivela essere poco più di un film fetish sado-maso a buon mercato. Calpestare è la parola chiave per comprendere questo film. Non vi è altro. Una serqua di donne che calpesta con i tacchi un uomo inerme. “Il film che stai per vedere parla della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo”, questo l’intento didascalico nei preamboli  esplicativi del film, ma appare evidente che si tratta più dell’ossessione feticistica per i piedi femminili da parte di un uomo.

Il protagonista del film veste i panni di un malvagio proprietario terriero destinato a essere punito sotto i piedi, sotto i tacchi. In un piccolo paese africano in una piantagione in cui vige ancora un regime di schiavitù le lavoratrici schiave di un proprietario terriero bianco decidono di catturarlo dopo che si è rifiutato di consegnare la sua ricchezza guadagnata, perpetrando soprusi e bassezze di ogni genere. La guerra civile porta alla fine dell’apartheid. Gli ex schiavi possono rivendicare il possesso delle proprietà dei loro padroni. Inoltre possono agire in giudizio contro gli ex oppressori, sporgere denuncia, e infliggere punizioni. Un proprietario terriero rifiuta di andarsene. La sua ex cameriera e altre nove donne che erano tenute in condizione di schiavitù intentano un finto processo, dove l’uomo sdraiato sul pavimento è legato con una corda. Mikels, regista e protagonista della pellicola, interpreta un proprietario terriero senza nome in un paese africano senza nome la cui minoranza bianca al potere è stata appena rovesciata. Mentre tutti i bianchi fuggono e abbandonano le loro proprietà ai neri, questo proprietario terriero si rifiuta ostinatamente. Di conseguenza, i suoi servitori – tutte donne, tutte con tacchi a spillo – si sollevano e lo prendono prigioniero.  Queste donne che si sono auto-promosse a giudice dell’uomo decidono di condannarlo a morte per “calpestamento“. La sentenza viene eseguita calzando le scarpe col tacco alto un tempo possedute da sua moglie che ha pensato bene di mollare gli ormeggi.

Il processo è una farsa, nessuna delle garanzie che si riconoscono a un procedimento giudiziario imparziale è contemplata. Le donne processano il vecchio in un tribunale informale con il capo domestico della casa, Wateesah (Jennifer Dove), che funge da giudice e le altre nove donne che agiscono sia come giuria che come testimoni contro il proprietario terriero. Butra (Rachel Powell), dalle sopracciglia pazze, il portavoce della giuria, annuncia che il vecchio dovrà affrontare il processo sdraiato sulla schiena con i tacchi delle scarpe di Wateesah premuti nello stomaco. Viene presentato come un gesto simbolico di punizione per aver calpestato i diritti dei suoi servi neri. Le donne che affiancano la corte presieduta da una giudice donna seduta su uno scranno che spesso accomoda le calzature dai tacchi affilati sulla pancia del prigioniero, mettono ai voti su come l’uomo dovrà morire. L’opzione che riscuote la maggioranza è la morte dell’uomo mediante calpestamento delle scarpe col tacco. La scarpa col tacco diventa emblema di giustizia per queste donne che se ne appropriano e le calzano con piacere, e con ancora più piacere schiacciano sotto i calcagni il loro oppressore, il loro aguzzino.

Quale insegnamento possiamo trarre da una pellicola del genere scevra da ogni pregio artistico? Che spesso le vittime, quando la sorte si volge a loro favore, sanno essere crudeli come e più dei loro carnefici, a cui senza alcuna misericordia riservano lo stesso trattamento.