Un gruppo di ricercatori guidato dall’Università americana McMaster ha dimostrato che all’origine della peste avvenuta durante l’impero di Giustiniano tra il 541 e il 542 d.c e quella medievale del 1348 vi erano due ceppi batterici differenti. Il batterio responsabile della peste è lo Hersinia Pestis, agente patogeno che si annida nelle pulci dei roditori che trasmettono l’infezione all’uomo.
I ricercatori sono riusciti ad isolare alcuni campioni dai denti delle vittime della peste all’epoca dell’impero bizantino. Grazie al DNA estratto dai denti di alcune vittime della peste ai tempi di Giustiniano, i cui resti sono stati rinvenuti in un cimitero in Baviera, è stato possibile isolare i più antichi campioni del genoma della peste studiati finora.
Secondo i ricercatori il genoma del batterio della peste di Giustiniano dopo essere scomparso apparentemente senza lasciare traccia, si sarebbe evoluto nel batterio che ha falcidiato buona parte della popolazione europea con la epidemia del 1348, la famigerata Peste Nera che letteralmente sterminò il 60% della popolazione europea. Inoltre gli scienziati ritengono che il batterio responsabile della peste all’epoca di Giustiniano provenisse dall’Asia e non dall’Africa come invece si pensava.
E’ vero che oggi conoscendosi bene le modalità di diffusione di questo batterio è possibile prevenire le epidemie, eppure sporadicamente si registrano ancora al mondo casi di peste perché l’Yersinia Pestis ha grandi capacità di adattamento all’ambiente.
I virologi sottolineano che si tratta di un batterio molto potente, per cui è impossibile pensare che possa scomparire del tutto, ma resta allo stato latente nell’ambiente fino a quando non si creano condizioni favorevoli al suo sviluppo.
Ad esempio in paesi come il Madagascar ricorrono ancora oggi epidemie scatenate dal batterio della peste. La più recente pandemia che si è sviluppata nella metà del XIX secolo ha fatto 12 milioni di vittime in Cina e in India.
Proprio per questo i ricercatori sottolineano quanto sia importante evitare che si creino situazioni favorevoli allo sviluppo di questo batterio. La ricerca è stata pubblicata su Lancet Infectious Diseases.