Il suo grado di picantezza supera tutti quelli conosciuti con la scala Scoville, che lo misura sulla base di quanta capsaicina è contenuta. ll Bhut Jolokia, o peperoncino fantasma, si attesta intorno ai 900.000 SHU, inferiore comunque al record del Carolina Reaper, fatto registrare nel 2013 che ha raggiunto 2.200.000 SHU nella scala Scoville. A differenza degli altri peperoncini, gli effetti aumentano col passare dei minuti. Il picco si raggiunge dopo circa 20 minuti. Per passare possono essere necessarie anche due ore.
Bhut Jolokia: gli impieghi
Considerato il suo elevatissimo grado di piccantezza, il Bhut Jolokia non può essere consumato direttamente, tuttavia può utilizzarsi come base per la preparazione di alcune salse piccanti e oli. Più che in ambito culinario, il peperoncino Bhut Jolokia trova impiego per produrre lo spray al peperoncino usato dalla polizia. Inoltre gli indiani se ne servono per ricavarne un impasto repellente per insetti, oltre che come spray anti-aggressione. In questo senso è considerato un insetticida naturale, in quanto gli elementi che lo compongono non risultano inquinanti per l’ambiente.
Peperoncino: le proprietà per la salute
Il peperoncino d’altronde è una spezia molto utilizzata in cucina che contiene anche delle proprietà molto interessanti per la salute. Secondo una ricerca americana che ha preso in esame i dati della National Health and Nutritional Examination Survey (NHANES) III su 16.000 americani seguiti per 18 anni, tale peperoncino rosso riduce la mortalità del 13%, in particolare quella dovuta a patologie cardiovascolari ed ictus. Per i ricercatori ciò potrebbe derivare dalla capsaicina, ovvero dal principio attivo del peperoncino, che svolge un ruolo importante nella prevenzione dell’obesità ed è in grado di ridurre anche i trigleceridi nel sangue. Ed in effetti già precedente ricerca condotta dall’Accademia Cinese di Scienze Mediche aveva evidenziato che condire i cibi con spezie piccanti, in particolare col peperoncino, ridurrebbe il rischio di mortalità del 10%.
I ricercatori sono arrivati a queste conclusioni dopo aver monitorato le abitudini alimentari di 500mila persone per 7 anni. Lo studio americano è stato pubblicato sulla rivista Plos One.