Brutta avventura per un giovane uomo che ha quasi rischiato la vita dopo aver partecipato a una gara di degustazione relativa al Carolina peaper, il peperoncino più piccante del mondo. In particolare ad evidenziare quanto accaduto sono i medici del Bassett Medical Center di New York, che hanno pubblicato il caso sul ‘BMJ Case Reports’. L’uomo a causa dei dolori lancinanti da cui è stato colpito si è rivolto al pronto soccorso, dove gli è stato diagnosticato un mal di testa a rombo di tuono, una forma di cefalea che risulta molto debilitante, secondario alla sindrome da vasocostrizione cerbrale reversibile (Rcvs). La sindrome consiste in particolare nel restringimento temporaneo delle arterie. I sintomi avvertiti dal 34enne sono i seguenti: violenti conati di vomito, dolori al collo e mal di testa molto forti della durata di pochi secondi nei giorni successivi. Quello dell’uomo è il primo caso della sindrome associata al consumo di peperoncini. I sintomi in ogni caso sono scomparsi da soli e la tac eseguita cinque settimane dopo la prima visita ha evidenziato che le arterie hanno riacquistato il calibro normale. Il peperoncino d’altronde è una spezia molto utilizzata in cucina che contiene anche delle proprietà molto interessanti per la salute. Secondo una ricerca americana che ha preso in esame i dati della National Health and Nutritional Examination Survey (NHANES) III su 16.000 americani seguiti per 18 anni, tale peperoncino rosso riduce la mortalità del 13%, in particolare quella dovuta a patologie cardiovascolari ed ictus. Per i ricercatori ciò potrebbe derivare dalla capsaicina, ovvero dal principio attivo del peperoncino, che svolge un ruolo importante nella prevenzione dell’obesità ed è in grado di ridurre anche i trigleceridi nel sangue. Ed in effetti già precedente ricerca condotta dall’Accademia Cinese di Scienze Mediche aveva evidenziato che condire i cibi con spezie piccanti, in particolare col peperoncino, ridurrebbe il rischio di mortalità del 10%.
I ricercatori sono arrivati a queste conclusioni dopo aver monitorato le abitudini alimentari di 500mila persone per 7 anni. Lo studio americano è stato pubblicato sulla rivista Plos One.
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