Ricercatori italiani facenti parte del reparto di Parontologia presso la Cir Dental School dell’Università di Torino ha dimostrato che l’impiego delle cellule staminali può dimostrarsi utile per la ricostruzione dei tessuti danneggiati dalla parodontite, una patologia che se non viene curata per tempo può determinare perdita dei denti. I ricercatori seppur in via del tutto sperimentale, mediante tecniche di bioingegneria e l’impiego delle cellule staminali, sono riusciti a ricostruire i tessuti lesi. Lo studio è stato condotto dal professore Mario Aimetti, Presidente della società italiana di parodontologia e implantologia. Con questa tecnica sono stati trattati 11 pazienti. Le cellule staminali isolate dalla polpa di un dente che deve essere estratto, vengono sostenute da spugnette in grado di riassorbirsi, quindi si innestano a livello dei tessuti del parodonto danneggiato per ricostruirlo. Le cellule staminali innestate si sono dimostrate in grado di rigenerare i tessuti nell’arco di 12 mesi. Aimetti sottolinea che la “Bioingegneria tissutale è uno degli argomenti che si sta sviluppando al fine di trovare soluzioni sempre più bioconmpatibili per rigenera l’osso che circonda il dente e il legamento paradentale”. Ma quali sono le applicazoini più recenti abase di cellule staminali? Paolo Muraro, professore dell’Imperial College di Londra, ha effettuato una terapia combinata a base di chemioterapia e cellule staminali sarebbe in grado di contrastare efficacemente la sclerosi multipla bloccandone la progressione per 5 anni. Lo studio ha preso in esame un campione di 281 persone che non aveva tratto giovamento dalle terapie tradizionali. Dopo che sono state prelevate le cellule staminali dai loro midolli ossei, i pazienti sono stati sottoposti a potenti dosi di chemioterapia per distruggere il sistema immunitario malato, quindi sono state inettate le cellule staminali per dar lugo alla nascita di un sistema immunitario sano dopo l’eliminazione delle cellule impazzite.
Per circa la metà delle persone curate si è assistito all’arresto della progressione della malattia nell’arco di cinque anni di osservazione. Lo studio è stato pubblicato su Jama Neurology.
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