Si riciclò quindi come allenatore. Si sedette su diverse panchine, ma le esperienze più importanti furono a Napoli e a Firenze. Per ben quattro volte fu allenatore del Napoli, col quale conquistò una storica coppa Italia quando gli azzurri giocavano in serie B. Con la Fiorentina vinse un altrettanto storico scudetto. Quando smise di allenare il Petisso (il Piccoletto) si stabilì a Napoli, città con cui sviluppò un rapporto di amore viscerale. Lui stesso di definì un “napoletano nato all’estero”. Parlava spesso e volentieri di Napoli anche quando lavorava in altre città, cosa che non era sempre gradita.
Gli aneddoti soprattutto sulla sua carriera di allenatore erano infiniti. Fumava più sigarette di Zeman, e passò alla storia il suo mitico cappotto color cammello portafortuna che non toglieva neanche nelle giornate più calde di primavera. Tatticamente era un mago, leggeva benissimo le partite, ma soprattutto sapeva frastornare gli avversari con le sue alchimie più simili a quelli di un illusionista che di un allenatore. Si racconta che, davanti a tutti, con una mano faceva segno alla squadra di salire. In realtà con l’altra mano diceva alla squadra di retrocedere. I suoi uomini conoscevano questo marchingegno, ma gli avversari no e andavano in confusione.
Un altro aneddoto racconta che Pesaola era solito avvicinare un giocatore durante la partita per dirgli: “Non devo dirti un c…o, continua così che stai giocando bene. Ma se gli altri vedono che ti sto parlando pensano che ti sto dando indicazioni tattiche, tu continua a fare quello che stai facendo”. Amava le difese forti e giocare in contropiede, e anche la sua scomparsa ha preso tutto il popolo napoletano in contropiede. Dedichiamo l’ultimo saluto commosso al grande Pesaola con un commiato dedicatogli dalla curva B nel suo stadio San Paolo: “Sei il calcio che mi hanno raccontato, quello di mio padre che io ascoltavo incantato, parlava di uomini e maglie e di epiche battaglie, ti ritroverò ogni mattino nei miei sogni da bambino. Addio Petisso”.